Un itinerario nato per caso, sorseggiando un calice di Ficiligno. Da Piana degli Albanesi a Bagheria, un road trip nella Sicilia più autentica.
Un viaggio al profumo di agrumi e al retrogusto di mandorla.
Coppole, visi scavati dalle rughe, mani che parlano di terra e di mare.
Isola, scirocco, Sicilia.
Questa volta il viaggio parte da un calice di Ficiligno. Un bianco fresco, intenso e profumato. Evocativo.
Questa volta il viaggio parte da una terra argillosa, da un grappolo di Inzolia.
Parte dalla bellezza a 700 metri sopra il livello del mare, da una delle più note comunità storiche arbëreshë: Piana degli Albanesi, un po’ Italia un po’ Albania.
Tappa imperdibile innanzitutto per gli estimatori del cannolo che, all’Extra Bar (Piazza Vittorio Emanuale 4), troveranno uno dei migliori di Sicilia. Segue l’assaggio del rinomato ‘bukë’, tipico pane preparato con farina di grani duri locali, cotto negli antichi forni a legna e lavorato secondo gli usi tradizionali; il plus: godetevelo ancora caldo con il caratteristico olio d’oliva dall’aroma leggermente piccante, insieme a del fresco pecorino locale.
A poco meno di un’ora da Piana degli Albanesi si incontra Poggioreale, il paese fantasma fermo al 1968, anno della violenta scossa che colpì la Valle del Belice. Palazzi sventrati, scalinate a cielo aperto, giardini nascosti e porte socchiuse, sbarrate, sorvegliate da macigni di pietra. Personalmente la trovo di un fascino indescrivibile, divisa tra la malinconia del ricordo e la resa totale. Vige sovrano il divieto d’entrata: solo per questa volta, chiudete un occhio.
L’entroterra è lo specchio della Sicilia più autentica, quella non imbellita – o meglio, imbruttita – da souvenir e menù turistici. Oltrepassando riserve naturali, rocche e piccoli paesi circondati dai monti si arriva a Corleone. Un nome tanto pesante quanto turisticamente ignoto, nella stragrande maggioranza dei casi associato unicamente – e permettetemi, erroneamente – a un triste capitolo della nostra storia. Fagocitata dalla sua nomea Corleone ha però la grande fortuna di essere vissuta, amata e protetta dai suoi abitanti più giovani, molti dei quali impegnati in un encomiabile progetto di rilancio. Personalmente potrei trascorrere ore all’ombra di un gelso in contemplazione della Cascata delle Due rocche: il salto dell’acqua, quel rumore che riappacifica con il mondo, il vapore trasformato in arcobaleno dai raggi del sole.
Ci sono città che trasudano sicilianità, già a partire dal nome. Una di queste è Bagheria.
Strada facendo, sosta intermedia a Marineo, il paese dell’anguria più dolce di sempre. Fermatevi a un carretto qualsiasi e prendetene una fetta, con un solo euro – in realtà anche a costo zero perché vi sarà offerta – capirete il significato della parola felicità.
Bagheria è sud.
La luce riflessa nel giallo del tufo avvolge ogni singolo centimetro del suo Corso: è tanto elegante quanto malinconica. Il pensiero vola a Tornatore, è inevitabile. La città delle cento ville non può prescindere da un passeggio tra le antiche residenze estive dell’aristocrazia palermitana, barocco allo stato puro: partite da Villa Palagonia, più conosciuta come “Villa dei Mostri” a causa delle tante sculture deformi e animalesche che la abitano.
Questo viaggio, iniziato dalle gioie da grappolo d’uva, termina davanti al mare di Santa Flavia. Il tramonto, i pescherecci che rientrano, la bassa marea: puro romanticismo. Questa piccolissima frazione di Bagheria è l’ideale per concludere un on the road in terra sicula consigliato – tra tutti – agli amanti degli itinerari alternativi, ai buongustai, agli animi slow, ai rilassati.
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